Focus su

1. Sandro Mocci

Sandro Mocci: dalla introduzione a “I manager di Dio”
La regola nella prospettiva storica

Uno dei maggiori fraintendimenti della psicologia delle organizzazioni è quello di pensare ai propri oggetti di studio come a oggetti senza passato, o molto recenti, viventi in un presente astorico e proiettati in un futuro irto di ostacoli, di sfide, ma un futuro sempre a portata di mano, perfettibile, conquistabile, come un’età dell’oro alla rovescia. Un futuro segnato dalla complessità, dalle transizioni moderno/post-moderno, locale/globale. Queste teorie del “dopo”, che prefigurano nuove “società dell’informazione, della conoscenza, dei consumi”, registrano il recente passato dei loro oggetti come prodotti del freddo razionalismo scientifico e dipingono il loro futuro collocandoli in uno scenario dominato dalla globalizzazione, dal turbolento ingresso nella scena planetaria di nuovi soggetti, nuovi produttori, nuovi mercati, nuovi consumatori, tutti pronti ad affrontare nuove sfide, nuovi obbiettivi, nuove strade da percorrere.
A questi oggetti appartengono le figure del manager e del leader che la scienza organizzativa, psicologica, sociologica e manageriale studia intensamente da circa un secolo. A ben guardare queste figure sono assai più antiche di quanto possa sembrare a prima vista. Non sono altro che il nome nuovo di patriarchi, giudici, re, principi, duci, condottieri, gubernes, di tutti quelli coinvolti nella gestione del potere, dell’autorità, della guida e dell’influenzamento di persone singole o di gruppi. Talvolta il linguaggio opera curiose trasformazioni: il mutare del nome resetta il significato, tanto per usare un termine tecnologico di moda.
Rocco Meloni rilegge l’esperienza del monachesimo benedettino alla luce di queste categorie contemporanee, compiendo tre fondamentali operazioni: annullare questo reset, illustrandoci l’abate, esempio di felice coesistenza della figura di manager e di leader in un passato lontano, ma per certi versi attuale; allargare la riflessione sui modelli di oggi, che la ricerca contemporanea ha in qualche modo ipostatizzato; collocare la fortuna del modello benedettino in una prospettiva evoluzionistica.

2. Sandro Mocci

Sandro Mocci: dalla introduzione a “I manager di Dio”
Manager e leadership

Un altro concetto consolidato nella ricerca e nella prassi organizzativa è quello della differenza tra manager e leader: il primo ci indicherebbe cosa dobbiamo fare, il secondo ci convincerebbe a fare ciò che dobbiamo fare. L’uno ruolo formale, l’altro ruolo ideale, non sempre coincidenti o compresenti nello stesso soggetto. Meloni invece ci racconta con grande acutezza la compresenza delle due componenti nella figura dell’abate: uomo di governo e uomo di carisma. Come manager impegnato nella gestione di risorse a lui assegnate, spesso affidategli da un altro signore, è un uomo d’ordine e d’autorità, che esercita la potestas con rigore e con senso di umanità. Ma allo stesso tempo è “pio” e “santo” e per ciò stesso convincente: esemplare nella condotta e quindi modello di riferimento. Come si sa, exempla trahunt. Non a caso fu proprio dalle Abbazie franche che partì la riforma del cristianesimo dopo il disordine altomedioevale. Retto esercizio di autorità e retto comportamento informato alla Regola, norma di convivenza della comunità. L’autorità proviene da Dio, il retto comportamento è ossequio alla Regola, il fine è stabilire il Regno di Dio sulla terra, trasformando gli uomini. Potestas e charisma, come sostiene Meloni, al servizio dell’uomo: “è l’individuo concreto, con tutte le sue potenzialità elevate e tutti i suoi limiti e vizi, che rappresenta l’unico materiale su cui costruire una comunità e un progetto di sviluppo sia spirituale che materiale”. Sembra proprio di riconoscere nell’abate, pur con tutte le cautele che impongono precorrimenti di questo tipo, il leader trasformazionale di Bernard Bass, orientato alla produzione di benessere nel gruppo e alla creazione di consenso da parte dei collaboratori in vista del perseguimento del bene collettivo.
Ma vi è un ulteriore elemento nella potestas e charisma dell’abate: è manager e leader perché è prima di tutto padre. Anche l’etimologia lo sottolinea: abate dall’ebraico “av” padre o “abbà” (papà o papino). È il padre dell’abbazia, non il padrone del feudo, e tutti lo rispettano in quanto tale: rappresenta Cristo, colui che a sua volta rappresentò in maniera così forte e primaria Dio stesso come padre. Sembrerebbe un passo indietro rispetto alla concezione di leader autorevole e carismatico, persuasivo e convincente. In realtà sta proprio in questo la modernità del suo ruolo. Essere padre non significa abusare dell’autorità paterna, naturale o putativa, orientando tutte le relazioni che lo coinvolgono nel modello relazionale fortemente asimmetrico padre-figlio. Al contrario significa saper governare nello stesso tempo diversi sistemi di relazioni, sovrapposti e talvolta conflittuali: la relazione gerarchica superiore-subalterno, la relazione canonica abate-monaco, la relazione educativa maestro-allievo, la relazione sostanzialmente educativa padre-figlio, essendo a un tempo amorevoli, autorevoli e comprensivi come farebbe un padre. Infine l’abate come Maestro della scuola di Dio, ma anche educatore che all’occorrenza corregga, riprenda, rimproveri, secondo il consiglio dell’apostolo Paolo. Questa capacità di gestire questo intreccio di sistemi di relazioni sembra il punto di forza dell’autorevolezza dell’abate: interpretare diversi ruoli, equilibrare la relazione quando serve, ristabilire il principio di autorità quando ricorrono le circostanze. Esercizio non sempre praticato dai manager attuali.
Un’ultima chiave di lettura di questa esperienza manageriale del passato ci viene proposta da Rocco Meloni: considerare il successo dell’abate, manager e leader in un’ottica evoluzionistica. Il signore feudale è scomparso, l’abate è giunto sino a noi, trasformato, ma sostanzialmente vincente. Il signore amministra e sfrutta cose, siano uomini o terre, a suo arbitrio e piacimento, l’abate guida uomini. Uomini non come risorsa, ma come persone. Alla luce dell’esperienza storica, reggono i modelli organizzativi che pongono al centro lo sviluppo dell’uomo, le sue specificità e le sue potenzialità. Il fine ultimo potrà di volta in volta essere un ideale Sette-Ottocentesco di progresso, giustizia e felicità terrena, oppure il lungo e faticoso cammino verso Dio. Meloni afferma: “La Regola di Benedetto è basata su un umanesimo sostanziale, che vede nell’uomo infinite potenzialità ma anche il culmine di un disegno di matrice divina che lo rende centro del creato”. Non reggono, alla lunga, modelli organizzativi che sfruttano l’uomo, considerandone solo la valenza materiale e strumentale.

3. Rocco Meloni

Rocco Meloni: da I manager di Dio
Le abbazie: un modello di forza politica ed economica

L’attenzione al fenomeno benedettino, formalizzato nella sua Regola e concretizzato nella gestione delle abbazie, deriva dal perpetuarsi di una specifica tipologia di gestione che ha nell’abate la sua figura peculiare.
Esaminare e studiare la struttura manageriale come definita dalla Regola benedettina e valutare l’azione della leadership dell’abate hanno costituito un’occasione molto significativa e stimolante per verificare storicamente come si concretizzò e quali riferimenti organizzativi adottò quel movimento che fu a un tempo spirituale, culturale, politico ed economico.
Nell’arco di quasi 700 anni si sviluppò un metodo di gestione di comunità che perseguivano un medesimo obiettivo generale, seguivano medesime regole, si strutturavano organizzativamente nello stesso modo e, soprattutto, eleggevano democraticamente al loro interno il proprio “manager” cui demandare, a vita, la gestione della comunità.
Il successo storico del modello benedettino è soprattutto di tipo manageriale, a un tempo politico ed economico. Altri ordini conventuali, in testa i francescani e i domenicani, espressero un elevato numero di filosofi e di pensatori di livello europeo; Tommaso d’Aquino, domenicano, costituì la sintesi poderosa del pensiero scolastico medioevale, mentre la scuola francescana, con Bonaventura, Duns Scoto e Ockham, dominava tutti gli Studi europei più importanti, inclusa la Facoltà Teologica di Parigi e la Scuola di Oxford. Ma il loro riferimento economico e sociale è ormai quello del mondo dei Comuni, che in quel periodo costituivano l’alternativa economica, giuridica, sociale e anche politica al sistema di tipo feudale che continuò a perpetuarsi nelle campagne nelle quali si radicava il monachesimo benedettino.
Ma è appunto sul fronte della ri-colonizzazione economica e sociale delle campagne medievali di tutta Europa che i benedettini rivelarono una capacità di management senza eguali e costituiscono un “unicum” storico.
Gli abati benedettini strutturarono, infatti, una sequenza di manager di livello elevatissimo, forse quanto di più moderno ed efficace il tempo potesse esprimere sul piano della gestione.
Nei secoli di massimo fulgore del monachesimo furono liberi da ingerenze feudali e comunque capaci di operare in ampia autonomia; la continuità del mandato e l’aderenza allo spirito della Regola costituì il collante comune di secoli di vita abbaziale e una parte delle ragioni che spiegano il successo di quell’esperienza storico-gestio­nale.
A Cluny si conservava la cronotassi degli abati quasi fosse assimilabile a quelle proprie dei re; si disponeva di blasone come se si trattasse di un granducato feudale; si riuniva il Capitolo di centinaia di abbazie “figlie” sparse in tutta l’Europa, costituendo la vera prima multinazionale dell’economia. Nel periodo di massima espansione Cluny giunse a controllare fino a 1.400 abbazie satelliti.
Nel mondo delle abbazie benedettine si realizzò quanto Domenico Musti attribuisce al Senato Romano: «…concepisce l’impero come un compito che va al di là del respiro di un solo uomo o di pochi individui, di una o due generazioni. Lo concepisce come il compito storico di una intera classe dirigente che se lo trasmette di generazione in generazione, in una continuità di secoli; sicché il vero segreto per la comprensione della formazione del dominio romano è lo studio della sua classe dirigente e del suo atteggiamento di fronte ai problemi della conquista e del dominio».
Nel Medioevo, per quasi quattro secoli, gli abati benedettini costituirono una classe dirigente che, pur nella non contiguità geografica o nella discontinuità cronologica, costituì un’unica classe dirigente che si trasmetteva la stessa visione, lo stesso obiettivo, gli stessi strumenti, le medesime metodiche di management.
Questo fu il segreto del management e della leadership benedettina.

4. Rocco Meloni

Rocco Meloni: da I manager di Dio
La forza politica degli abati

Benedetto di Aniane, monaco e abate benedettino di stirpe visigota già richiamato precedentemente, fu nominato da Carlo Magno istitutore religioso del figlio Ludovico, il quale, divenuto a sua volta imperatore dei Franchi, incaricò l’abate suo maestro di riformare tutti i monasteri dell’impero franco nel senso della Regola e della pratica benedettina.
La Regola e la prassi delle Abbazie benedettine assurgono così a livello di modello organizzativo e formativo.
Nei secoli successivi, in particolare dopo la riforma cluniacense, l’influenza politica benedettina divenne inarrestabile.
La scuola abbaziale benedettina esprimeva il meglio del management economico e della leadership spirituale e manageriale.
Dal movimento benedettino cluniacense vennero 4 Papi: Gregorio VII, Urbano II, Pasquale II, tutti sostanzialmente in sequenza (1073-1085, 1088-1099, 1099-1118) e poi, nel 1362, Urbano V.
Gregorio VII, già citato in precedenza, si formò a Cluny prima di essere chiamato a Roma e eletto a soglio pontificio.
Qui portò l’impulso riformatore che a Cluny aveva visto operare dentro l’ordine benedettino.
Prima di divenire Papa con il nome di Gregorio VII divenne abate di San Paolo fuori le mura in Roma, operando nel senso della riforma cluniacense.
Da Papa continuò la riforma della Chiesa, tentando di liberarla dall’ingerenza e influenza degli imperatori germanici, così come volle impedire ogni ulteriore influenza dell’imperatore sulla nomina dei vescovi.
Grande Papa e forte tempra di riformatore; con lui si arriva al culmine della lotta per le investiture: rivendicava al Papa e, quindi al potere spirituale e divino, la scelta e la nomina dei vescovi, contro l’ingerenza interessata degli imperatori.
Lo scontro culminò con la deposizione (Dieta di Worms) del Papa da parte di Enrico IV e la susseguente scomunica di Gregorio VII contro l’Imperatore Enrico.
L’imperatore si trovò in una posizione di forte debolezza, perché lo scontro con il Papa poteva dar adito a spinte ribellistiche di feudatari locali.
Era il tempo in cui Cluny aveva come abate Ugo il Grande, al quale, non casualmente, Papa Gregorio VII così scrive nel gennaio del 1075:
“Se poi con gli occhi dello spirito guardo a occidente, a sud o a nord, a stento io trovo vescovi legittimi per elezione e per condotta di vita, che si lascino guidare ... dall'amore di Cristo e non dall'ambizione mondana. Fra i principi secolari non ne conosco uno che anteponga l'onore di Dio al proprio e la giustizia all'interesse”
Fu sempre l’intermediazione di Ugo di Cluny che portò all’incontro di Canossa, presso la contessa Matilde; Enrico IV attese fuori come pellegrino, poi, ammesso come penitente davanti al Papa, fu da questi prosciolto dalla scomunica.
Da questo momento gli abati benedettini diventano i protagonisti della politica europea.
Quando muore Gregorio VII viene eletto al soglio pontificio Desiderio, abate di Montecassino, che assume il nome di Vittore III.
A lui si contrappone un antipapa nominato dall’imperatore.
Si è nel pieno della lotta per le investiture che contrappone il papato all’impero.
I monasteri e gli abati benedettini sono in prima fila nella lotta a favore del Papa e della supremazia della Chiesa. E’ un’armata forte, coesa, colta, fedele e dotata di capacità politiche, economiche e manageriali uniche a quel tempo.
Il papato dell’ex abate di Montecassino finisce dopo soli sedici mesi.
Viene quindi eletto Papa Urbano II, già priore di Cluny sotto l’abate Ugo; quando accompagnò questi in occasione del viaggio in Italia per l’incontro di Canossa, Papa Gregorio VII lo trattenne a Roma e lo avvio a ruoli strategici nella chiesa romana.
Fu grande diplomatico e assertore della riforma della chiesa nel senso di opposizione alla simonia, alla investitura dei vescovi da parte degli imperatori e per il celibato del clero.
Fu tra i fautori della crociata per portare aiuto a Costantinopoli sotto assedio; il suo appello raccolse oltre 60.000 uomini che, guidati da Goffredo di Buglione, diedero vita alla prima crociata.
A lui successe il Papa Pasquale II, benedettino di ordine cluniacense nel convento di Fiumana, vicino a Forlì.
Proseguì lo scontro con gli imperatori per impedire loro di nominare i vescovi e contemporaneamente continuò l’azione di riforma della chiesa contro la simonia e a favore del celibato ecclesiastico.
Fu un periodo di forti scontri, e quando il Papa si trovò in forti difficoltà si rifugiò nell’Abbazia di Montecassino.
Se si osserva bene possiamo constatare che per un secolo si avvicendarono al soglio papale abati o monaci di cultura e pratica benedettina cluniacense.


5. Rocco Meloni

Rocco Meloni: da I manager di Dio
Il valore del silenzio

Un manager intuitivo e riflessivo non ha difficoltà a cogliere la grande attualità di un simile valore se appena vuole interpretarlo con categorie moderne. Una lettura precisa della Regola (capitolo 55) effettivamente fa emergere una connotazione “insidiosa” del silenzio: impedire che la comunicazione fra i monaci inneschi la creazione di fazioni, sviluppi il senso dell’individualità, agevoli le istanze più personali, fino a generare mormorazione, contestazione e ribellione. Benedetto è “umanamente” preoccupato di prevenire i rischi della prevalenza dell’individualità sulla comunità; e ciò viene alimentato dalla possibilità di comunicare in forma non controllata. Se però si analizza il contenuto dei silenzi, l’oggetto delle riflessioni che dovevano occupare la mente del monaco “silente”, si può cogliere subito come il valore della “non parola” sia, in positivo, un rafforzatore dei principi della comunità. Nel silenzio, infatti, il monaco riflette sulla vita di quest’ultima, sulla propria ascesi spirituale, sulle letture giornalmente fatte, sui propri difetti o insufficienze riscontrate nella giornata tanto per citare qualche esempio.
L’abate rifletteva certamente sull’andamento della sua comunità, sui singoli monaci, sui diversi e vari problemi risolti o da risolvere, sia di tipo materiale che educativo/formativo dei suoi monaci. Per questo il momento del silenzio è quello in cui si raccolgono le idee, si valutano i fatti, si sedimentano le emozioni, si riacquista lucidità e prospettiva.
Il grande senso del silenzio in funzione dell’azione e della virtù “pratica” è stato perfettamente recepito e rielaborato dalla cultura della filosofia scolastica. Tommaso d’Aquino sosterrà, infatti: «Vita activa supponit abbundantiam contemplationis»[1], ovvero la vita attiva implica molta riflessione.
Ed ecco il senso estremamente moderno del silenzio per il manager dei giorni nostri: recuperare momenti di riflessione personale “strutturata”, che cioè sia regolarmente vissuta, non estemporaneamente fatta “nei ritagli di tempo”, fra una emergenza e l’altra.
Infatti il limite della vita economica e sociale della società della comunicazione, quella appunto in cui oggi si muove il manager, è l’impossibilità di avere momenti in cui il flusso delle informazioni, delle comunicazioni, delle valutazioni, della presa in carico di problemi organizzativo/gestionali e delle decisioni operative si fermi, anche solo per un attimo.
Il flusso è così elevato e le interazioni sono di tale portata che la possibilità di fronteggiare tutto nel tempo necessario è diventato impraticabile. Ogni manager oggi vive in uno stato di tale tensione da poter condividere ciò che affermava il Segretario di Stato americano Henry Kissinger: «Ho da risolvere tante cose urgenti che mi manca il tempo di occuparmi delle cose importanti».
Senza il silenzio, oggi diremmo senza tempo per riflettere e solo per riflettere, il manager non è più padrone del suo tempo ma è, al contrario, il tempo delle emergenze, nel suo inarrestabile flusso, a stabilire la sua agenda giornaliera.
Il silenzio, dunque, oggi è riflessione. Per il manager diventa il momento in cui si ripensa la mission generale, in cui si valutano fatti e prospettive con il distacco mentale necessario a vederli in proiezione e non solo nella contingenza dell’urgenza. Chi non dispone di questa facoltà e di questa possibilità non coglie il senso generale del tempo e delle cose in evoluzione.

Titoli

1.Sandro Mocci: dalla introduzione a “I manager di Dio” La regola nella prospettiva storica

2.Sandro Mocci: dalla introduzione a “I manager di Dio” Manager e leadership

3. Rocco Meloni: da I manager di Dio
Le abbazie: un modello di forza politica ed economica

4. Rocco Meloni: da I manager di Dio
La forza politica degli abati

5.Rocco Meloni: da I manager di Dio
Il valore del silenzio